Le storie di cui non sai praticamente nulla, che tocchi con mano per caso dopo 50 anni, sono impressionanti.
Il Vajont può essere una cartolina o un paragrafo del libro di storia a scuola; oppure può essere il racconto di un sopravvissuto, la rabbia di un parente, il pretesto per una polemica o l'affanno di chi chiede una giustizia.
Io a Longarone 2 (la 1 non esiste più a 48 anni), ci sono passato la prima volta ieri 5 agosto 2011 alle 8 mattino: tempo di un cappuccino, di ascoltare qualche intercalare veneto, di chiedere a un salumiere di farcire un panino... pochi minuti che bastano a innescare assieme a Stefano un mini-dibattito con chi si è ricostruito una vita.
La seconda volta ci sono tornato sempre ieri un po' prima di sera. E questa volta pioveva.
La cartolina della diga ti lascia una sensazione che non è per niente facile descrivere. Appeso ad una corda a 3.000 metri, mentre sei in ferrata, provi il vuoto nello stomaco ma ti senti vivo; guardare un muro di cemento, immaginarsi cosa c'è sotto il fango sul quale cammini, toccare quello che qualcuno ha cercato di ricostruire dopo la frana ti lascia un vuoto nello stomaco ma ti senti morto.
Arrivarci un po' preparati, con lo spettacolo di Paolini (Il racconto del Vajont) o il libro di Tina Merlini (Sulla pelle viva) e anche il documentario Tolau (5 ore prima del Vajont) forse aiuta un po' a riempire il vuoto.
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